Mostrarsi e scomparire


Che cosa può dire la parola? Può davvero ambire a decifrare, o anche soltanto a rappresentare, in maniera non approssimativa, la cosiddetta realtà? Tra la parola e il mondo è sempre in atto una contesa, un aspro gioco ricolmo di speranze precipitate e di fallimenti, o di tentazioni illusive e di fraintendimenti di non vicaria importanza. La parola non è il mondo e non è ciò che pensiamo di vedere; la sua natura labirintica, il suo continuo impulso alla rettorica e al nascondimento, il suo mascherare e alterare la natura degli eventi ci fanno intendere che mai sarà possibile, finalmente, descrivere ciò che si mostra; oppure dire (o narrare o spiegare) ciò che siamo.
La scrittura d’arte, poi, è una specie di ragna dentro una ragna: un labirinto moltiplicato, un travestimento e una mimetizzazione che rende più spesso e pesante il velo ingannatore che sempre ci impedisce di mirare (e poi di penetrare a fondo, entro la sua ultima verità) l’essenza autentica del mondo.
Ciò che vorrebbe fare intendere la scrittura d’arte ci sembra, a conti fatti, una sorta di tradimento o di impostura o di deviamento.  Essa è dunque mistificatoria o inautentica? Siamo, allora, condannati all’impossibilità di tradurre la realtà entro le forme strette e chiuse della parola?

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Il contorno dell’ombra di Rosa Pierno (Oedipus, 2020) non fornisce risposte. Aumenta, se possibile, la vertigine di qualche nuova domanda, lo stupore di un nuovo interrogativo.
Un libro alto porta sempre, con sé, speranza e disperanza insieme.

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Si dica subito che questo nuovo libro di Rosa Pierno si presenta con un duplice volto: quello del Minotauro, il mostro imprigionato nell’oscuro ragnatelo del suo palazzo doloroso;  e quello di Tèseo, il liberatore-uccisore. Le prose qui raccolte – armoniche e splendenti di una calma cristallina; e di una bellezza ambigua, trasumanata – sembrano, allo stesso tempo, prigioniere del loro impossibile desiderio (quello di ricucire lo strappo, o la ferita, tra la parola e la visione) ma, anche, sommamente liberatrici: e la loro agogica affatata, cioè il tempo dilatato della loro musica, e l’affilata e quadrata misura che di continuo le sostiene ci mostrano, infine, uno sguardo vittorioso, perché amorosamente abbandonato (Tèseo deve immergersi nell’abbandono del Labirinto; deve osare combattere contro il buio e contro l’inguardabile e l’inconosciuto, per poter vincere la violenza del Mostro); soltanto una parola abbandonata, preda di un sogno miracoloso, potrà divorare e annientare il nulla dell’insignificanza, l’inferno dell’incomprensibile.
La parola labirintica non può cogliere l’esattezza della visione che le è mostrata: e allora la divora gioiosamente, siccome un nuovo Minotauro che decida di sovvertire l’itinerario stesso di quel Labirinto, frantumandolo all’infinito.

Ecco l’alto fondamento di queste prose: un nihilismo sereno, gioioso, rafforzante (proprio come lo aveva inteso Jünger lettore di Nietzsche). È certo vero, dunque: la scrittura non può competere con la vista o con l’udito o con lo specchio della mente; una visione sempre s’impoverisce o si riduce nello spazio limitato di una frase.  Ma questa povertà, e questo sentimento di inadeguatezza, e questo continuo correre, ansiosamente, per le stanze del Labirinto (in attesa di trovare l’uscita: la risposta; la quiete; l’accordo finale) restituiscono a chi scrive, e a chi legge, la sensazione di una dolce e così tanto desiderabile resa da spingerli, per un attimo, a rinunciare all’egoistica volontà di uno sguardo personale.
È ciò che vogliono, da noi, le prose del Contorno dell’ombra: vedere in modo assoluto, nella vertigine di una sottrazione del soggetto. Descrivere l’emergere delle presenze come se avessimo, per un istante, una lingua pura e nata adesso; o un occhio primitivo o ravvivato o ritrasformato senza nessuna sosta (a mano a mano che esso, col sostegno di una magica sospensione, attraversa tutte le stanze del palazzo-ragnatelo). Un occhio che si fa potente, perché disperato e speranzoso.

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La scrittura di Rosa Pierno è una prigione dolce. Le porte della sua casa sono sempre, misteriosamente, aperte. Eppure nessuna delle presenze ospitate vuole fuggire. Noi pure vi rimaniamo fermi e sospesi, per trasvolare entro il suo spazio, dimentichi del creato (e dimentichi, per fortuna, dell’impossibilità di descrivere quel creato). Il mondo da raccontare si trasforma nella parola stessa che racconta. Il drago dell’ineffabile è vinto, perché la scrittura stessa è divenuta un drago. Tutto, allora, si ricompone: la parola non teme più di non potere descrivere il reale e ci fa sapere, a un certo punto, che la sua vittoria (l’esito del suo nihilismo non più vittimistico o sconfitto, ma divenuto più forte e più vivificato) consiste nell’accettare la parola d’arte non già come simulacro o imitazione o rispecchiamento dell’autentico o del vero; perché, ora, il suo essere altro coincide con la sua bellezza e con la sua forza, e con la sua auto-liberazione (prossima a un auto-imprigionamento: è una prosa, quella di Rosa Pierno, che ha l’ordine e il largo respiro della poesia; ed è una poesia che ha la geometrica luce di un disegno finissimo; ed è un disegno che ha le linee precise e simultanee di un canone musicale, perfetto e imperfettibile nel suo eterno e infinibile intrecciarsi e ricominciare…).

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Che c’importa, allora, del vero? Anche la stessa visione non è il vero, né il reale: ogni visione è un simulacro, una fantasima, un’alterità che ci suggerisce solo un contorno o una vibrazione o un’eco di qualcosa che è solo immaginabile: ed è appunto l’immaginabile, o l’intuibile, forse, la vera mèta della scrittura di Pierno; e al tormento di quell’insanabile iato che si registra, senza alcuna risoluzione o remissione, tra il suono e il corpo, tra lo sguardo e la lingua, i testi di questo poema orizzontale reagiscono offrendo lo straniamento di un ordine estremo, di una musica dalle perfette e intatte proporzioni.
Anche questo è il segno di una prospettiva ferocemente (e felicemente) nihilistica, la cui natura profonda non è certo fondata sulla malattia o sulla decadenza, o sul disordine o sull’anarchia, ma sui princìpi del nobile ristabilimento di un lucido ordine geometrico, sovrasoggettivo e, perciò, imbattibile e implacabile.
Ernst Jünger afferma, a tal proposito: «Tra il nihilismo e il disordine sussiste la stessa differenza che separa il nihilismo dal caos e dall’anarchia: nell’ambito dell’inabitato come in quello del vivente. Per il nihilista, deserti e foreste vergini sono forme. In questo senso il caos non gli è più necessario: non è un luogo al quale è legato. Ancor meno gli è congeniale l’anarchia, che turberebbe il rigoroso decorso delle cose nel quale egli si muove. Ciò vale anche per l’ebbrezza. Perfino nei luoghi nei quali il nihilismo mostra i suoi tratti più inquietanti, come nei grandi luoghi di sterminio fisico, regnano sovrani la sobrietà, l’igiene, l’ordine rigoroso».


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Il doppio volto della scrittura di Rosa Pierno (essa è, contemporaneamente, una libera prigione e un mostro liberatore; e un corpo-dedalo che si declina in una infinità di stanze-variazioni) ci offre un libro metamorfico, anfibio, che possiede non poche nature: quella poetica, in cui si mostrano e si rincorrono l’orfico e l’apollineo; quella narrativa, benché nulla, qui, sembra codificabile o delineabile con una certa precisione; e poi quella saggistica e teorica: perché leggiamo una prosa che parla di arte (e di quell’amoroso combattimento che avviene di continuo tra le forze della dicibilità e dell’indicibilità delle forme di vita) che è essa stessa arte, e immagine altra; e parola metafisica. Solo con un tale paradosso – scrittura che non può dire l’arte, perché essa è l’arte – è possibile uscire, senza temere il disordine della follia, dal caos dell’inattingibile mondo –  e del suo misterioso, fatale mostrarsi e scomparire.



Cima da Conegliano, Teseo uccide il Minotauro, 1505.