Che cosa può dire la parola? Può davvero ambire a decifrare, o anche soltanto a rappresentare, in maniera non approssimativa, la cosiddetta realtà? Tra la parola e il mondo è sempre in atto una contesa, un aspro gioco ricolmo di speranze precipitate e di fallimenti, o di tentazioni illusive e di fraintendimenti di non vicaria importanza. La parola non è il mondo e non è ciò che pensiamo di vedere; la sua natura labirintica, il suo continuo impulso alla rettorica e al nascondimento, il suo mascherare e alterare la natura degli eventi ci fanno intendere che mai sarà possibile, finalmente, descrivere ciò che si mostra; oppure dire (o narrare o spiegare) ciò che siamo.
La
scrittura d’arte, poi, è una specie di ragna dentro una ragna: un labirinto
moltiplicato, un travestimento e una mimetizzazione che rende più spesso e
pesante il velo ingannatore che sempre ci impedisce di mirare (e poi di
penetrare a fondo, entro la sua ultima verità) l’essenza autentica del mondo.
Ciò
che vorrebbe fare intendere la scrittura d’arte ci sembra, a conti fatti, una
sorta di tradimento o di impostura o di deviamento. Essa è dunque mistificatoria o inautentica? Siamo, allora, condannati
all’impossibilità di tradurre la realtà entro le forme strette e chiuse della
parola?
***
Il contorno dell’ombra di
Rosa Pierno (Oedipus, 2020) non fornisce risposte. Aumenta, se possibile, la
vertigine di qualche nuova domanda, lo stupore di un nuovo interrogativo.
Un
libro alto porta sempre, con sé, speranza e disperanza insieme.
***
Si
dica subito che questo nuovo libro di Rosa Pierno si presenta con un duplice
volto: quello del Minotauro, il mostro imprigionato nell’oscuro ragnatelo del
suo palazzo doloroso; e quello di Tèseo,
il liberatore-uccisore. Le prose qui raccolte – armoniche e splendenti di una
calma cristallina; e di una bellezza ambigua, trasumanata – sembrano, allo
stesso tempo, prigioniere del loro
impossibile desiderio (quello di ricucire lo strappo, o la ferita, tra la
parola e la visione) ma, anche, sommamente liberatrici:
e la loro agogica affatata, cioè il tempo
dilatato della loro musica, e l’affilata e quadrata misura che di continuo le
sostiene ci mostrano, infine, uno sguardo vittorioso, perché amorosamente
abbandonato (Tèseo deve immergersi
nell’abbandono del Labirinto; deve osare combattere contro il buio e contro
l’inguardabile e l’inconosciuto, per poter vincere la violenza del Mostro); soltanto
una parola abbandonata, preda di un
sogno miracoloso, potrà divorare e annientare il nulla dell’insignificanza,
l’inferno dell’incomprensibile.
La
parola labirintica non può cogliere l’esattezza della visione che le è
mostrata: e allora la divora gioiosamente, siccome un nuovo Minotauro che decida
di sovvertire l’itinerario stesso di quel Labirinto, frantumandolo
all’infinito.
Ecco
l’alto fondamento di queste prose: un nihilismo sereno, gioioso, rafforzante (proprio
come lo aveva inteso Jünger lettore di Nietzsche). È certo vero, dunque: la
scrittura non può competere con la vista o con l’udito o con lo specchio della
mente; una visione sempre s’impoverisce o si riduce nello spazio limitato di
una frase. Ma questa povertà, e questo
sentimento di inadeguatezza, e questo continuo correre, ansiosamente, per le
stanze del Labirinto (in attesa di trovare l’uscita: la risposta; la quiete; l’accordo
finale) restituiscono a chi scrive, e a chi legge, la sensazione di una dolce e
così tanto desiderabile resa da
spingerli, per un attimo, a rinunciare all’egoistica volontà di uno sguardo
personale.
È ciò
che vogliono, da noi, le prose del Contorno
dell’ombra: vedere in modo assoluto, nella vertigine di una sottrazione del
soggetto. Descrivere l’emergere delle presenze come se avessimo, per un
istante, una lingua pura e nata adesso;
o un occhio primitivo o ravvivato o ritrasformato senza nessuna sosta (a mano a
mano che esso, col sostegno di una magica sospensione, attraversa tutte le
stanze del palazzo-ragnatelo). Un occhio che si fa potente, perché disperato e speranzoso.
***
La
scrittura di Rosa Pierno è una prigione dolce. Le porte della sua casa sono sempre,
misteriosamente, aperte. Eppure nessuna delle presenze ospitate vuole fuggire.
Noi pure vi rimaniamo fermi e sospesi, per trasvolare entro il suo spazio,
dimentichi del creato (e dimentichi, per fortuna, dell’impossibilità di
descrivere quel creato). Il mondo da raccontare si trasforma nella parola
stessa che racconta. Il drago dell’ineffabile è vinto, perché la scrittura
stessa è divenuta un drago. Tutto, allora, si ricompone: la parola non teme più
di non potere descrivere il reale e ci fa sapere, a un certo punto, che la sua
vittoria (l’esito del suo nihilismo non più vittimistico o sconfitto, ma
divenuto più forte e più vivificato) consiste nell’accettare la parola d’arte
non già come simulacro o imitazione o rispecchiamento dell’autentico o del
vero; perché, ora, il suo essere altro coincide
con la sua bellezza e con la sua forza, e con la sua auto-liberazione (prossima
a un auto-imprigionamento: è una prosa, quella di Rosa Pierno, che ha l’ordine
e il largo respiro della poesia; ed è una poesia che ha la geometrica luce di
un disegno finissimo; ed è un disegno che ha le linee precise e simultanee di
un canone musicale, perfetto e imperfettibile nel suo eterno e infinibile
intrecciarsi e ricominciare…).
***
Che c’importa,
allora, del vero? Anche la stessa
visione non è il vero, né il reale:
ogni visione è un simulacro, una fantasima, un’alterità che ci suggerisce solo un contorno o una vibrazione o
un’eco di qualcosa che è solo immaginabile: ed è appunto l’immaginabile, o l’intuibile, forse, la vera mèta della scrittura di
Pierno; e al tormento di quell’insanabile iato che si registra, senza alcuna
risoluzione o remissione, tra il suono e il corpo, tra lo sguardo e la lingua,
i testi di questo poema orizzontale reagiscono offrendo lo straniamento di un
ordine estremo, di una musica dalle
perfette e intatte proporzioni.
Anche
questo è il segno di una prospettiva ferocemente (e felicemente) nihilistica,
la cui natura profonda non è certo fondata sulla malattia o sulla decadenza, o
sul disordine o sull’anarchia, ma sui princìpi del nobile ristabilimento di un
lucido ordine geometrico, sovrasoggettivo e, perciò, imbattibile e implacabile.
Ernst Jünger
afferma, a tal proposito: «Tra il nihilismo e il disordine sussiste la stessa
differenza che separa il nihilismo dal caos e dall’anarchia: nell’ambito
dell’inabitato come in quello del vivente. Per il nihilista, deserti e foreste
vergini sono forme. In questo senso il caos non gli è più necessario: non è un
luogo al quale è legato. Ancor meno gli è congeniale l’anarchia, che turberebbe
il rigoroso decorso delle cose nel quale egli si muove. Ciò vale anche per
l’ebbrezza. Perfino nei luoghi nei quali il nihilismo mostra i suoi tratti più
inquietanti, come nei grandi luoghi di sterminio fisico, regnano sovrani la
sobrietà, l’igiene, l’ordine rigoroso».
****
Il
doppio volto della scrittura di Rosa Pierno (essa è, contemporaneamente, una
libera prigione e un mostro liberatore; e un corpo-dedalo che si declina in una
infinità di stanze-variazioni) ci offre un libro metamorfico, anfibio, che
possiede non poche nature: quella poetica, in cui si mostrano e si rincorrono
l’orfico e l’apollineo; quella narrativa, benché nulla, qui, sembra codificabile o delineabile con una certa precisione;
e poi quella saggistica e teorica: perché leggiamo una prosa che parla di arte
(e di quell’amoroso combattimento che avviene di continuo tra le forze della
dicibilità e dell’indicibilità delle forme di vita) che è essa stessa arte, e immagine altra;
e parola metafisica. Solo con un tale paradosso – scrittura che non può dire l’arte, perché essa è l’arte – è possibile uscire,
senza temere il disordine della follia, dal caos dell’inattingibile mondo – e del suo misterioso, fatale mostrarsi e scomparire.
Cima da Conegliano, Teseo uccide il Minotauro, 1505.