Questo mondo opaco e caduco, questa
città e questo inverno, sono solo
ombre sui vetri dell’universo…
Igor' Vladimirovic Cinnov, Monólog (1950)
Si
nasce mostrando, ex abrupto, uno
sguardo trasversale e sibillino, ancipite e oppositivo. Il poeta ha da poco
premuto il piede sulla scena della vita e desidera accecarsi e scomparire,
trasmutandosi in ospite addolorato e transfuga. Egli subisce il dono e la
punizione della vita ricevendo, allo stesso tempo, la benedizione di essere nel
mondo e la maledizione di coloro che
condividono con lui l’aspro e meraviglioso suo cammino.
La
sofferenza principia dalla prima, chiara rilevazione della costituzione malvagia e affatto respingente del
mondo; ma essa sofferenza è anche, provvidenzialmente, commista alla gioia di
essere tutta distante da quella
stessa cattiva essenza entro la quale sono, invece, immersi gli altri uomini, i non artisti, i farisei:
coloro che si affidano alle false virtù della volontà, del desiderio,
dell’accumulo; gli uomini-commercianti che intendono l’esistenza come guadagno,
sopraffazione, mutuo e perenne imbroglio, scambio utilitaristico di merce e di
ipocrisia.
Certo:
le fantasmagorie del poeta non rendono onore agl’ideali borghesi dell’arricchimento,
della produttività e del progresso tipici della volgare visione capitalistica
del mondo (nella quale avere è meglio
di essere, ed essere è preferibile a non
essere).
Donde, amaramente unite, la felicità e la tristezza di essere contro tutto ciò; e la disperazione e la
gioia di essere poeta e non
uomo-mercante. Ecco perché nascere è, insieme, benedizione e maledizione.
Quale
soluzione, dunque? Essa sarebbe quella di scomparire e di ubriacarsi; e di
precipitare nel caos, nella intermissione
della vita, nel nulla che non sa nulla.
La
Città appare al poeta, per qualche istante, come il luogo perfetto per
accogliere, in sé stesso, il delirio e il rapimento dell’ubriacatura e dello
sperdimento. La violenta confusione
della Metropoli, il suo cieco aggrovigliarsi entro le prosaiche ragne
dell’affaccendarsi e del lavorare, i suoi stessi valori bassamente fisiologici
ed empirici, sempre fondati sulla velocità, sulla meccanizzazione e
sull’efficienza, costituiscono il presupposto di una progressiva e consumante
disumanizzazione, di una continua alienazione
prossima a generare il totale disfacimento del principium individuationis.
Paradosso e sconcerto: immergersi nella folla degli orrendi lavoratori,
nella loro ottusa orgia di cotidiani doveri borghesi, affaristici e
ottimistici, potrebbe donare al poeta qualche minuto di estasi e di
stordimento, di vortice e di auto-annichilamento?
Ma
la Città, meravigliosa e mostruosa allo stesso tempo, mostra pure, al poeta,
qualche altra sottile e misteriosa forma di alterazione, di euforia, di
ubriachezza e di voluttà: e cioè la conoscenza, inattesa e ferina, dell’autentica
natura, anfibola ed enimmatica, della
bellezza e dell’amore: una natura
ch’è misteriosamente legata all’essere-per-svanire, all’immediatezza
dell’istante, alla fuggevolezza di un’apparizione che improvvisa risplende e si
nasconde, come la splendida e inconosciuta (e inconoscibile) Passante che noi
potremmo amare per il resto della nostra vita (a patto che essa non sia mai
vicina a noi, e che non si possa conoscere mai!).
L’istante,
allora, coincide con la medesima
bellezza, la quale eternamente si mostra nel suo disfarsi: cioè si offre e si
ritira contemporaneamente, poiché sempre dona e sempre toglie.
La
bellezza è misteriosa e contraddittoria, perché mobile e irripetibile, ed
eterna e inviolabile nella sua immediatezza e nella sua caducità, proprio come
una nuvola o una rosa.
È
quello che suggerisce la risposta finale dell’extraordinaire étranger contenuta
nella prosa con la quale s’iniziano i baudelairiani Poèmes en prose: « - “Eh via, che ami dunque, straordinario straniero?”
– “Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole
meravigliose!”».
Le
nuvole che passano. Le nuvole meravigliose. La gioia suprema ch’è provata dal
poeta nel contemplarle amorosamente coglie il senso di quella oscura e comune
radice che stringe e lega, in una segreta unione, la bellezza e la sua
sparizione: l’acuta felicità, apparentemente infinita, s’incontra sempre con la
liquida e mortale fuggevolezza cui tutto è destinato – sia l’oggetto
contemplato, sia l’occhio medesimo che lo contempla. Lo stesso Baudelaire («Ho
trovato la definizione del Bello, - del mio Bello. È qualcosa di ardente e di
triste») avverte fortissimo il senso di tali nozze, in cui l’unica illusione
accettabile è offerta dalla consapevolezza di quella duplice energia che sempre
accompagna la visione della bellezza: l’una di pienezza quasi atemporale e di
lietezza superiore, l’altra di sbriciolamento e di perdita inarrestabile; di
qui, l’ineffabile congiunzione di bellezza e di malinconia, in cui è possibile
accettare la rettorica delle illusioni non mai dimenticando che ogni evento è costretto
sempre all’esito di una conclusione, alla mèta di una finitudine; e in ciò è
presente, in vero, una dolce
consolazione, che rende meravigliosamente prezioso quell’istante in cui la stessa
visione della bellezza si mostra e,
subito dopo, si ritira: la nuvola e la rosa ci donano, così, nel loro tenero e
splendido apparire e scomparire, il senso e il significato più profondo di quel
pietoso, amorevole occultamento del
destino mortale di ogni forma di esistenza, già illustrato da Torquato Accetto
nel suo trattato Della dissimulazione
onesta: «La rosa par bella perché […] quasi con una semplice superficie di
vermiglio fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch’ella sia porpora
immortale». Quando invece la Donna, supremo dimostramento della bellezza
sensuosa, si svela ma non fugge, e
invece resta qui, con noi, tra di noi, ad amarci (a illudere di amarci? A
illudere di essere amata?), essa mostra il suo essere obliquo e perfido,
vampiresco e meduseo (e, come la stessa vita, appare benedicente e maledicente).
Insuperabile
e insanabile sempre è la distanza che allontana l’artista dagli uomini-mercanti; e profonda e
incomponibile è la stessa differenza che separa il creatore-dandy, fiero dispregiatore
di ogni idea di condivisione democratica, dal piccolo servo della società,
innorbito dai meschini interessi economici, dalle fole e dai finti idealismi
politicheggianti, dall’umanismo interessato delle fedi religiose.
Il
buon cittadino, il buon cristiano afferma, vuole, capisce, perdona. Tende alla
riconciliazione, alla speranza, alla resa incondizionata. Lavora, produce,
costruisce. Si illude e illude coloro che gli sono vicino. Il poeta no. Il
poeta sa che l’unica verità è l’assenza di verità. Sa, anzi, che l’unica verità
accettabile è la negazione, è l’opposizione all’ordine costituito dalle
autorità morali, religiose, politiche della società in cui, a suo dispetto, è
costretto a vivere. Egli è il portavoce della disillusione e del contro-canto.
Il poeta nega e combatte, là dove tutti gli altri affermano e sono
illusivamente propositivi, uniti, concordi e felici. Il “No!” continuo e
disperato ch’egli usa, ostinatamente, per difendersi dal cattivo odore del
prossimo, lo apparenta alla triste saggezza di Satana, che si ribella contro la
prepotenza divina di voler concentrare su di sé l’unica possibile immagine
della Verità.
Il
poeta ha scelto la strada della disubbidienza, del rovesciamento, del sovvertimento
degli idoli, della confutazione delle ipocrisie umanistico-riconciliative; egli
diventerà, così, il «maledetto», il «negativo», il «folle». La buona società
non accetta le scomode anti-verità del poeta, contrapposte alle oneste menzogne
dell’uomo comune. Il poeta ha scoperto e ha mostrato il male dell’esistenza, e
va condannato agl’Inferi, a un esilio infinito.
È
l’esilio dell’albatro: animale superiormente nobile e altro; e, appunto, in
quanto nobile, altro e distante, perché abituato più al cielo, alle nuvole,
all’indistinto, esso non può essere apprezzato dai naviganti (cioè dai continui
cercatori, da quelli che vogliono arraffare, catturare, accumulare). Un poeta
vuole il rapimento e il vortice. Soprattutto non vuole essere. Non vuole
appartenere a nulla; tantomeno a sé stesso.
La
chimericità di inseguire il Nirvana del non-essere si configura, tuttavia,
dolorosamente, come un continuo atto di Ribellione e, dunque, come un atto di
volontà. La figura baudelairiana di Satana è certo un nemico del filisteo
«socratico», dell’amico della logica e della buona coscienza; ma è anche un sovrano messaggero del Nulla, un
attore felice di aver dimenticato per sempre le battute che l’ipocrita commedia
della vita comunitaria vuole imporgli di recitare. Satana appare come
l’oppositore della coscienza del fare e dell’essere. Ripudia l’affanno zelante
dei lavoratori: dice di No; toglie e non dà; distrugge e non crea; ha ribrezzo,
come il poeta, delle ambizioni di dominio imperialistico dei politicanti
tardo-borghesi: vuole andare a picco, dimenticare il proprio nome: diventare
lui stesso una poesia, una melodia.
Ecco,
allora, che cosa intende davvero, Baudelaire, nel pronunciare la parola Musica: un mezzo di amplificazione (e,
dunque, di dilatazione-distruzione) dell’io. La prospettiva è, chiaramente,
schopenhaueriana e wagneriana; e tutta wagneriana, vista l’ambizione di voler
declinare la parola poetica in Gesamtkunstwerk, è la stessa percezione sinestetica
dell’universo; di qui, lo sviluppo di una profonda e nobile intuizione: tutte le immagini nascono, in origine,
dalla stupefacente gemmazione di un suono primordiale, e tutti gli elementi
condivisi in questa visione sinestetica – suono, testo, parola, musica,
immagine – percorrono un’unica strada
che ci ricorda la complementarità e la profonda unione che sempre lega e
stringe l’ascolto e la visione, i corpi e le sembianze: «Giacché sarebbe
davvero sorprendente che il suono non potesse suggerire il colore, che i colori
non potessero dare l’idea di una melodia, e che il suono e il colore fossero
impropri a tradurre le idee; le cose infatti si sono sempre espresse con
analogia reciproca, dal giorno in cui Dio ha proclamato il mondo come una
complessa e indivisibile totalità».
La
poesia baudelairiana persegue il compito di mostrare l’atroce verità di un
mondo che si presenta siccome un male radicale, corrotto sin dalla sua nascita
(e infelice e malvagio perché, appunto, non ideale, ma reale ed esistente); la
risposta del poeta non può che essere fierissima e dissidente: contro il lezzo
degli uomini, suoi mortali nemici, e contro il delusivo sogno della felicità,
egli impone a sé stesso, mercé la splendida musica dei versi, la necessaria
missione di una continua e inarrestabile auto-disillusione, tanto feroce e distruttiva,
quanto energica e trasfiguratrice.