Grammatica della poesia. I generi e le forme
A cura di Mario Fresa
La canzone proviene
dalla tradizione provenzale e giunge alla poesia toscana per il tramite della
Scuola siciliana. Dante ne analizza, nel De vulgari eloquentia,
l’origine e la tradizione, fissandone le norme formali. Nella codificazione
dantesca, la canzone appare composta da strofe suddivise in due sezioni: la
prima è chiamata fronte, la seconda sirma (o sirima o coda).
La prima parte, fronte, è composta di due o più piedi, così come
la sirma può essere divisa in giri o volte.
Talvolta può trovarsi, tra la fronte e la sirma,
un verso detto chiave, il quale fa rima col verso che
immediatamente lo precede. Esso serve a unire, anzi a fissare (diremmo a
“inchiodare”, giusta l’etimologia latina di chiave, che proviene
da clavo = io inchiodo) la prima alla seconda parte della
strofa (anticamente detta stanza). Nella parte finale
della canzone è presente una strofa più breve, denominata commiato o congedo;
è così chiamata perché il poeta, personificando la canzone stessa, le si
rivolge in modo diretto e poi, indirizzandola a un preciso destinatario, si
accomiata da essa. Lo schema delle rime, come l’andamento ritmico, è libero e
assai vario. Dante ha osservato: «A questo proposito, è bene sapere che i
nostri predecessori hanno fatto uso, nelle loro canzoni, di svariati tipi di
versi, e lo stesso fanno i nostri contemporanei: ma finora non ci risulta che
nessuno, nel conto delle sillabe del verso, abbia passato la misura
dell’endecasillabo oppure sia sceso sotto quella del trisillabo. E sebbene i
cantori italiani abbiano usato il verso trisillabo e tutte le misure
intermedie, di impiego più frequente sono il quinario, il settenario e
l’endecasillabo; dopo i quali viene il trisillabo prima di tutti gli altri».
Notevoli trasformazioni formali ha subìto il sonetto, in ispecie a partire dal
secolo XVI (con Boiardo, Tasso, Chiabrera, Bembo); e poi nel secolo successivo,
ad esempio con Vincenzo da Filicaja o con Alessandro Guidi, che sperimenta una
canzone a strofe libere e che sarà poi sviluppata, con maggiore e prodigiosa
originalità, da Giacomo Leopardi. Ma già nei secc. XIV e XV si attestano
numerose altre varianti della canzone: tra queste, la cosiddetta canzone terzina (sec.
XV; composta da tre parole-rima che si succedono secondo un processo di
retrogradazione a forma incrociata – abc/cab/b/c/a - e che si ripetono nella
parte conclusiva della canzone); la canzone sestina, la cui
invenzione è attribuita a Dante, su ispirazione di un precedente modello
provenzale (è costituita da sei strofe o stanze di sei endecasillabi e prevede,
come la canzone terzina, l’utilizzo di parole-rima situate nella posizione “a
specchio” della retrogradazione incrociata; la parte conclusiva, detta commiato,
prevede tre versi nei quali ricorrono due delle parole-rima usate in
precedenza: esse appaiono, infatti, metà nel mezzo del verso, metà alla fine).
Si ricordi, infine, la canzone (ovvero ode) pindarica,
dalla tipica forma tripartita. In essa, ciascuna triade (in cui la prima parte
è eguale alla seconda) è divisa in strofe, antìstrofe ed epòdo (sezioni
ribattezzate anche, nel XVI secolo, come ballata, controballata, stanza da
Luigi Alamanni e volta, rivolta, stanza dal
suo contemporaneo Antonio Sebastiano Minturno). Caso a sé stante è poi la canzonetta,
detta in particolare melica: ispirata alle strofe brevi e melodiose
delle odelettes di Pierre de Ronsard, questa poesia
“anacreontica”, di genere erotico-amoroso, fu ripresa in Italia, con un certo
successo, da Gabriello Chiabrera. Comprende poche strofe (al massimo sei),
sempre dotate di un ritmo pulsante e vivace (e dunque facilmente accompagnabili
dal canto e dalla musica). I versi più usati sono l’ottonario o il settenario;
vi compaiono, non di rado, parole e rime sdrùcciole o tronche.
La canzone
a ballo, ovvero ballata, nasce nel sec. XIII. Di origine
popolare, non tarda a conquistare l’àmbito culto della maggiore poesia italiana
fino al sec. XV (Dante, Cavalcanti, Petrarca, Poliziano) e desta un nuovo,
significativo interesse nei poeti del sec. XIX (Berchet, Carducci, Ferrari,
d’Annunzio). La derivazione culturale è provenzale: già codificata da Roman de
Fauvel (nel 1316) e da Eustache Deschamps (Art de dicter, 1392), la
ballata (da balada, propr. “danza”) ebbe, tra i suoi non pochi e
raffinati cultori, poeti come Chartier, Marot, de Machaut, Villon, etc.
Notevoli e originali, poi, gli sviluppi che la forma conobbe con l’invenzione
della ballata romantica, in Inghilterra (sec. XVIII, grazie alla
“riscoperta” del genere da parte di T. Percy), di carattere meno lirico e più
narrativo. Era accompagnata, nei tempi più antichi, giusta la sua origine
etimologica, alla musica e al ballo. D’altronde, anche sotto il profilo
musicale la ballata italiana antica denuncia una derivazione tipicamente
francese, perché la sua struttura si ispira al viralai e
al rondeau. Lo schema musicale più remoto presentava un motivo
principale espresso con un ritornello (ovvero ripresa),
seguìto da due frasi (o piedi) cantate sulla
medesima melodia di apertura; ai due piedi succedeva un
ritorno che prevedeva una nuova strofa innestata, però, sulle stesse rime
del ritornello e del motivo iniziale; la composizione si
chiudeva (senza escludere un’ulteriore ripetizione ciclica della struttura) con
la riproposta, spesso ornata, del ritornello (o ripresa).
La tradizione stilnovistica fissa la struttura della ballata presentando uno
schema in cui la ripresa (costituita da un numero non fisso di
versi dalla lunghezza variabile, ma di solito non inferiore al senario) è
seguìta da un numero non fisso di stanze divise in mutazioni (o piedi)
e in una volta finale che ripropone, nel primo verso, la prima
rima delle due mutazioni e, nell’ultimo verso, la terza rima
della ripresa. Prevalgono l’endecasillabo, il settenario e
l’ottonario. A seconda del numero dei versi della ripresa, la ballata è
chiamata mezzana quando la strofa del ritornello è
di tre versi, grande o maggiore quando supera
i tre versi, minore quando è costituita da un distico, piccola quando
è di un solo verso di undici sillabe, minima quando l’unico
verso è inferiore alle undici sillabe. La ballata formata da una sola stanza
assume il nome di ballatella o ballatina.
L’ode ha
origini molto antiche. È dapprima una composizione insieme poetica e musicale;
nasce in Grecia (ove, appunto, la melodia dell’ᾠδή è affidata non
solo a uno strumento musicale, ma anche e soprattutto all’ἀοιδή, alla
voce cantante) e lì trova molti fini e celebri cultori, da Alceo a Saffo ad
Anacreonte; e poi, tra gli altri, i due celebri poeti “rivali”, Bacchilide e
Pindaro (nei quali, tuttavia, prevale l’elemento propriamente poetico su quello
musicale). Molte e diverse le sue declinazioni espressive: ché l’ode antica può
chiamarsi epinicio quando celebra la vittoria di una gara; epicedio quando
esprime un’orazione funebre; epitalamio quando festeggia un
matrimonio. Il modello greco è ripreso da Orazio e da Catullo e, in epoca
moderna, e in particolare in Italia, esso è stato variamente “imitato” (vista
la sillabazione accentuativa della nostra metrica barbara) da poeti
come Bernardo Tasso, Gabriello Chiabrera, Giovan Battista Marino. La struttura
formale dell’ode moderna è varia e non univoca. Parini e Monti chiamano,
infatti, odi composizioni che sono, dal punto di vista
formale, in tutto assimilabili alle canzonette (v.); così come vicine
alle canzonette sono le stesse odi foscoliane che, tuttavia, perdono affatto
l’antica propensione amorosa e la vaghezza sentimentale di quel remoto modello
e assumono, invece, un tono di maggiore severità espressiva e di pensosa e
composta gravità. Il Romanticismo italiano sperimenta forme ancor più mosse e
varie dell’ode (spesso annettendo versi di media o di grande lunghezza e di
larga cantabilità come il decasillabo o l’endecasillabo), applicandovi sempre
un’attitudine alla declamazione drammatica e solenne, di natura religiosa o
civile o patriottica (come gli Inni sacri di Manzoni o le sue
celeberrime Odi civili).
Il sonetto è
un breve componimento poetico costituito da quattordici versi endecasillabi;
essi sono divisi in due strofe: due quartine più due terzine. La sua invenzione
è attribuita a Giacomo (o Jacopo) da Lentini (1210-1260). Nella poesia burlesca
(frequente nel sedicesimo secolo) si usava aggiungere altri tre versi,
chiamati coda: un settenario che rima col precedente verso, più due
versi endecasillabi con la rima baciata. Questo sonetto “prolungato” prevedeva
anche la possibilità che la coda si ripetesse più volte e ha assunto il
nome di sonetto caudato o sonettessa.
Quando nei
due versi finali della coda si utilizzano versi di misura inferiore alle undici
sillabe (novenari o ottonari o settenari…), il sonetto è chiamato minore. Nel
sonetto tradizionale, la rima delle quartine è in genere alternata o baciata
(oppure, una quartina ha la rima baciata e l’altra ha la rima alternata). La combinazione
delle rime presenti nelle terzine può seguire vari schemi; tra questi: cde,
cde; cde, dec; cdc, dcd, ecc. È chiamato raddoppiato quel
sonetto che presenta un numero doppio di quartine e di terzine; il sonetto
denominato doppio inserisce un settenario dopo ogni verso
dispari delle quartine e dopo ogni verso pari delle terzine. Un insieme di
sonetti sopra lo stessa tema assume il nome di catena o corona.
Lo strambotto, o rispetto, è stato usato, ma con
differenti intenzioni, sia nella poesia culta (e ciò a partire già dal sec.
XIII) sia nelle sue deviazioni e derivazioni popolaresche e volgari. Il duplice
nome di questa speciale forma metrica indica, infatti, una sua bivalenza espressiva
e tematica: strambotto deriva dal provenzale estribar che
significa staffilare o sferzare (e, perciò, metaforicamente, provocare o
criticare qualcuno con toni aspri e beffardi); rispetto indica,
invece, il suo esatto opposto: cioè l'azione di esprimere ossequio, amore,
reverenza (la parola deriva dal latino respicĕre: guardare indietro
con rispetto; immagine già collegata da Fromm, nella sua Arte di amare,
alla manifestazione fondante e principale del sentimento d'amore). Il rispetto non
ha scopi di dileggio o di sfida burlesca o denigratoria (benché i Toscani
abbiano spesso, per un processo di scherzosa paronomasia, trasformato la parola rispetto in dispetto)
e anzi assume, quasi paradossalmente, nella poesia d'arte, il carattere di un
componimento galante e amoroso. Lo strambotto ludico, "dispettoso" e
popolare sembrerebbe, allora, una derivazione parodistica del rispetto amoroso,
giacché esso si esprime, nella forma, applicando l'antica struttura strofica
del rispetto, che poteva prevedere l'ottava siciliana (ab/ab/ab/ab), l'ottava
toscana (ab/ ab/ab/cc) o l'ottava romagnola (aa/bb/cc/dd). Le stanze per istrambotti (o rispetti continuati) erano strofe di otto versi collegate in serie secondo uno schema retorico e s'intonavano su strumenti musicali a corde pizzicate (dal liuto alla chitarra), sotto i balconi dell'amata. Si distinguevano in Serenata, Mattinata, Dipartita e Disperata (Carducci riprese, nel Libro III delle sue Rime nuove, la denominazione e la forma metrica di questi antichi istrambotti). Il verso più frequente che si trova nel rispetto/strambotto è
l'endecasillabo.